È il 2030 e il 25 novembre sono passati tre anni da quando la Francia ha invaso il Piemonte. Il presidente Bardella la chiama ancora “operazione speciale”, come se attraversare il Moncenisio con i carri armati non fosse un vero atto di guerra. Le forze francesi hanno occupato una fascia di territorio che va dalla Val Susa a Cuneo e hanno circondato Torino, arrivando a controllare il 70% della regione. Ma nel restante 30% ci sono città che resistono, comunità che non se ne vanno, amministrazioni che provano a tenere insieme ciò che possono per non rinunciare alla propria identità italiana. Identità che hanno sempre avuto, nonostante la storia di occupazione francese a cui Bardella si ispira per giustificare la sua “operazione speciale”.
La guerra è dura, ma il fronte è fermo. Dopo un’avanzata iniziale che sembrava dovesse portare i carri francesi fino a Roma in pochi giorni, l’Italia s’è desta: ha respinto le forze nemiche, e durante una ritirata caotica che ha liberato l’area di Pinerolo, i soldati francesi hanno lasciato strade costellate di corpi, mani legate con fascette, civili scelti a caso e giustiziati nei cortili delle loro case. Gli scantinati di alcune palazzine sono stati trasformati in sale di interrogatorio improvvisate, con tracce di violenze così brutali da risultare impossibili da razionalizzare. È lì che la guerra, da conflitto “di confine”, è diventata qualcosa di personale per tutto il Paese — da Roma alla Sicilia, dal Veneto alla Toscana.
Il fronte oggi avanza e arretra di pochi chilometri alla volta, a volte si perde un paese, altre volte lo si riconquista in un tira e molla estenuante. Nessun italiano vuole cedere altro terreno: combatte per la propria famiglia e per il diritto del popolo italiano di restare tale, di scegliere il proprio destino. Lo fa ad un costo tremendo, ma continua a farlo, nonostante tutto.
Ad un certo punto arriva un piano di pace: ventinove pagine e ventotto punti che gli italiani sperano possano finalmente destare l’Europa e il mondo, convincendoli a fermare un’aggressione ingiusta e brutale.
Il punto più controverso del piano è anche il più semplice da comprendere: all’Italia verrebbe chiesto di ritirare le proprie truppe non dalle zone occupate, ma da quelle ancora integre. Immaginate Roma ordinare all’Esercito di abbandonare l’intero asse Biella–Novara–Vercelli, ancora sotto pieno controllo italiano, per trasformarlo in una “zona cuscinetto demilitarizzata” riconosciuta come territorio francese. Una resa preventiva, camuffata da tecnicismo, che insulta migliaia di persone che hanno resistito per tre anni e che la Francia non è mai riuscita ad avvicinare militarmente. Il piano tratta le difficoltà francesi come un’avanzata inevitabile e pretende di correggere il fronte a tavolino per compiacere l’aggressore.
Il piano, tra le altre cose, chiede poi all’Italia di modificare la Costituzione per annullare il diritto dell’Italia a decidere le proprie alleanze — di fatto una resa di sovranità, oltre che ad una territoriale, e come se non bastasse spinge anche per una reintegrazione della Francia nel G8, quasi l’invasione fosse una questione secondaria, un fastidio prima di tornare al business as usual.
Mentre il Piemonte è ancora in parte occupato, mentre il Paese è chiamato a cedere territori mai conquistati e a ridisegnare la propria carta costituzionale sotto dettatura, gli Italiani devono benedire il ritorno di Parigi nel club delle grandi potenze e magari trovarsi un giorno allo stesso tavolo di chi si è reso responsabile dello sterminio di tanti compatrioti.
Certo, la pace si fa solo con i nemici, per definizione, ma pace non vuol dire resa.
E oggi noi non possiamo voltarci dall’altra parte.
Perché se tutto ciò che ho raccontato fin qui — Pinerolo, il Piemonte occupato al 70%, un piano di pace scritto su misura dell’invasore — non è mai accaduto qui, sta accadendo mentre parliamo sul suolo Europeo. E questo esercizio ucronico dovrebbe ricordarci, anche solo da lettori disattenti, quanto sia inaccettabile che un altro popolo come il nostro, fatto di colleghi, amici e persone che vivono una vita normale come la nostra, debba vivere una realtà fatta di bombe e paura per il proprio futuro.
Ma non abbiamo bisogno di immaginare case sventrate a Biella o massacri nel Pinerolese per capire cosa sta accadendo: dal 24 febbraio 2022, senza interruzione, decine di migliaia di droni e missili russi sono stati lanciati sulle città ucraine per colpire la popolazione e le infrastrutture civili. E negli stessi giorni in cui si parla di “negoziati di pace” guidati da Donald Trump e Vladimir Putin, questa campagna di terrorismo di stato si è persino intensificata. Vengono colpiti condomini, ospedali, teatri, scuole, chiese, mercati, stazioni, parchi giochi con un unico scopo: soffocare la speranza, fiaccare la resistenza Ucraina per convincerci che la resa sia l’unica via possibile. Ma non è così.
Se all’inizio della guerra fosse stata istituita una no-fly zone europea sui cieli ucraini, decine di migliaia di civili sarebbero ancora vivi; intere città oggi distrutte sarebbero ancora in piedi.
Una provocazione? Decisamente no: oggi la Russia viola sistematicamente lo spazio aereo di Paesi NATO ed europei — Polonia, Estonia, Lituania, Romania, Danimarca, Germania — testando i limiti della nostra attenzione e misurando spregiudicatamente la reazione dell’Alleanza Atlantica che sembra dormiente nella speranza di non alimentare un’escalation che è già in atto e che si palesa ai nostri confini sempre di più ogni giorno che passa.
Per questo l’Europa non può più delegare ad altri la propria sicurezza, né affidare il destino dell’Ucraina — e il proprio — all’umore mutevole di leader oltreoceano: serve un passo avanti europeo, deciso e immediato, nella costituzione di un vero esercito europeo che passa necessariamente per la difesa di Kyiv: la vera e propria trincea dove oggi si difendono lo stato di diritto, la libertà e l’idea stessa di democrazia contro un ordine mondiale fondato sulla forza bruta, sulle autocrazie e sulle teocrazie che da anni mostrano i denti.
Cosa fare , allora?
Continuare a fornire armi. Garantire a Kyiv una no-fly zone europea per proteggere i civili e le infrastrutture indispensabili e accelerare l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea come segnale politico inequivocabile:
non vi lasceremo soli.



