Un derby come un altro
Oggi, come il 16 Ottobre 2011, è il giorno del derby della capitale.
Quel giorno di dodici anni fa una Lazio molto meno blasonata di quella odierna, affronta la Roma in una altrimenti tranquilla domenica autunnale.
Da qualche anno, sugli spalti di un Olimpico pieno a domeniche alterne, ci siamo anche io, mio padre e mia madre, abbonati e tifosi della squadra che, per motivi diversi, tutti e tre sosteniamo.
Mio padre perché suo zio lo portava da piccolino a vedere le partite, mia madre perché ha scoperto la passione in età più avanzata ed io perché mi ricordo quando papà mi portava in motorino a vedere Giuseppe Signori.
Un derby come un altro. Non particolarmente importante ai fini della classifica e con niente in palio: insomma una partita in cui ci si contende soltanto la temporanea vittoria dell’eterna rivalità cittadina.
Dopo 5’ siamo già in svantaggio con un gol di Osvaldo che, in uno sfoggio di sicumera, sfoggia una maglietta con scritto Vi ho purgato anche io - e che ho sempre pensato dovesse invece riportare la scritta Vi ho purgato PERSINO io.
Gli spalti sono agitati, la gente si arrabbia e urla improperi. E anche io non faccio eccezione.
Nel primo tempo sembra che non ci sia storia, ma poi Brocchi viene atterrato in area e un calcio di rigore segnato da Hernanes riapre la partita.
Il pareggio è la cosa peggiore che ci può essere in un derby. Una condizione fisica instabile che sai benissimo che da un momento all’altro, con una piccola spinta, può cambiare tutto e portarti in un batter d’occhio dall’ansia, alla gioia, o allo sconforto.
Chinaglia diceva:
“Bisognava sbranarli, bisognava vincere, non il pareggio. Bisognava vincere. Non era possibile perdere contro la Roma”
La Lazio è arrembante e noi siamo lì che ci disperiamo, perché sappiamo che quell'equilibrio può cambiare da un momento all’altro, ma nessuno ci assicura che cambi in meglio. Con un contropiede tutta la serenità dell’avere la partita in pugno, può svanire in un istante.
Djibril Cissè, giocatore di una lazialità intrinseca per il suo potenziale inespresso, colpisce al volo un pallone che si schianta sul palo e che diventerà un tormentone del tifoso laziale degli anni successivi come un evento alla Sliding Doors da esibire come una cicatrice di guerra a tutti gli altri.
Al ‘93 sembra che l’equilibrio instabile abbia infine prevalso. Che quella pallina a cui basta un tocco debolissimo per cadere da un lato o dall’altro della montagna, sia invece destinata a rimanere l'ì.
Ma il dio del calcio è beffardo e sa come punire tutti quelli che al ‘90 si sono alzati dal seggiolino per andare via prima e trovare meno traffico.
Matuzalem trova con un pallone di prima geniale l’algido Miroslav Klose, campione mondiale capitato alla Lazio in tarda età e un po’ per caso, ma che si è reso protagonista di stagioni incredibili, il quale, come se fosse la cosa più semplice del mondo, insacca il pallone alla destra del portiere e fa esplodere l’Olimpico.
La gioia che si prova in quei momenti è incredibile. E’ come se tutto il resto svanisse dalla tua testa. Abbracci e baci perfetti sconosciuti attorno a te, e tutti siete felici perché un pallone, che neanche riesci bene a vedere dal tuo seggiolino, è entrato in rete.
Mio padre finisce tre file sotto e perde una scarpa che ci mettiamo un po’ a ritrovare tra le risate generali.
La partita finisce, ci abbracciamo e torniamo a casa contenti a vedere e rivedere gli Highlights alla TV, perché in fin dei conti dai Distinti Nord-Ovest non è che ci abbiamo capito poi molto.
Mio padre commenta sorridendo: “Non pensavo fosse un gol così bello!”.
Non sapevo che quello sarebbe stato l’ultimo derby che avremmo visto insieme.
Ed è buffo che, fra i tantissimi ricordi che ho di lui, uno dei più piacevoli sia legato a quella giornata in cui perse una scarpa all’olimpico e vincemmo un derby al ‘93 con gol di Miroslav Klose.
La liturgia del tifo
Penso che l’essere tifosi influisca in modo importante nello sviluppo della nostra personalità, come tutte le esperienze tribali.
Perché di fatto essere tifosi significa appartenere ad un popolo più grande: il popolo di tutti quelli che tifano la tua stessa squadra. Un popolo eterogeneo, come lo sono tutti i popoli, e che vede tra i suoi gente abietta, persone entusiaste, fanatici, intellettuali, studiosi: tutti così diversi, ma allo stesso tempo così uniti sotto un’unica bandiera.
E così esiste il popolo dei tifosi della Lazio, quello dei tifosi della Juventus, del Milan, e così via: tutti diversi, ma allo stesso tempo piuttosto simili.
Già perché ogni tifoso potrebbe raccontarti tantissimi esempi, aneddoti e situazioni per le quali essere tifoso della sua squadra, è completamente diverso dall’essere tifoso di un’altra squadra.
Anche se poi queste storie si assomigliano tutte.
Sono storie di devozione, di sofferenza, di gioia immensa, di rapporti umani e di ricordi legati a doppio filo ad un evento che in fin dei conti è sempre lo stesso - undici milionari che corrono dietro a un pallone come dicono i detrattori dello sport - ma che è capace di risultare così unico perché lo viviamo così intensamente e così con affetto, che ci risulta impossibile pensare che altri possano vivere dei momenti così.
Ora, lungi da me dire che i tifosi sono tutti uguali, anche perché la stessa esperienza può essere vissuta in modo totalmente diverso a seconda di chi la vive e del contesto in cui si trova quando la vive, ma penso che l’essere tifoso sia un’esperienza universale.
Ovviamente c’è chi sostiene che tutti i tifosi di una squadra cadano sotto un certo archetipo prevedibile.
I tifosi della Lazio sono tutti esaltati fascisti.
I tifosi della Roma sono tutti appassionati e sguaiati.
E finché si rimane nell’ambito del discorso sportivo da bar, è qualcosa di simpatico che in fondo fa parte del teatro, ma è evidente che questo sia essenzialmente falso e che l’appartenenza a un certo popolo, non faccia di qualcuno automaticamente una persona con certe caratteristiche.
Altrimenti si scadrebbe in una sorta di oroscopo sportivo per cui tutti i laziali sono fatti in un certo modo e tutti i romanisti in un altro e che, guardando la squadra che uno tifa, ci si possa fare un’idea di chi si ha davanti.
Se penso sia impossibile accomunare tutti i tifosi di una certa squadra sotto un unico archetipo, penso però che il tifo di una certa squadra possa influire sul carattere e sull’individualità di una persona.
Essere della Lazio si porta dietro tutta una liturgia precisa.
Sei tifoso della prima squadra di Roma, di quella che rifiutò la fusione con l’altra squadra che il fascismo decise che sarebbe dovuta diventare l’unica squadra rappresentativa della città, e di quella che per tanti anni è stata in ombra e a rischio da un momento all’altro di sparire in qualche serie minore.
Ci sono tante altre cose che fanno parte della liturgia, ma non mi interessa tirarle fuori tutte ora, anche perché il punto non è di cosa sia composta questa liturgia, quanto piuttosto il fatto che una liturgia di questo tipo esista, come esiste per tutte le squadre.
E se l’esistenza di queste diverse liturgie non crea degli archetipi di tifosi diversi, sono convinto che essa possa contribuire in modo importante nell’esperienza individuale.
Essere Laziale

Non credo quindi che sia possibile descrivere Il laziale, o il romanista per quel che vale.
Però credo che per ognuno di noi tifosi, sia possibile descrivere come L’essere tifosi abbia contribuito a forgiare il proprio carattere.
E il tutto sta nella risposta alla semplice domanda:
In cosa il tifo mi ha reso chi sono oggi?
Essere laziale per me è stato imparare ad essere in minoranza. E’ stato imparare a difendersi contro tanti ed è quello che mi ha fatto capire che l’essere in tanti a pensare qualcosa, non dice nulla sulla ragione di quell’argomento.
Almeno fino a quando non sono diventato grande abbastanza da capire che il tifo non è questione di ragione o torto, ma il punto è che il mio essere schernito dagli altri compagni di classe perché nell’ora di Educazione Fisica mettevo la maglietta della Lazio, mi ha reso più forte e meno permeabile alle critiche e al pensiero altrui.
Ovviamente, come dicevo prima, è possibile provare questa esperienza anche tifando altre squadre.
E non è detto che questa sia la stessa esperienza di altri tifosi laziali, pur essendo piuttosto comune nel racconto che molti ne fanno.
Ma questo è stato quello che ha insegnato il tifo a me.
Ovviamente anche questa precisa caratteristica della mia personalità non è interamente dovuta al tifo. E’ stata rafforzata e costruita sulla base di esperienze di vita in cui il tifo è emerso in maniera marginale o alle quali è stato del tutto estraneo. Anche perché basare tutta la nostra personalità sul tifo sarebbe folle. E le persone che lo fanno hanno spesso seri problemi relazionali.
La tribù
Essere tifosi vuol dire appartenere ad un popolo, ma il popolo è fatto di tante tribù. E queste tribù sono i gruppi di tifosi che assieme vivono quell’essere tifosi dando forma ad un’altra bella esperienza universale del tifo.
Nella tribù degli amici che assieme seguono una squadra, ci sono tanti ruoli.
C’è il pessimista cosmico, quello per cui se qualcosa può andare male, ci andrà e in una specie di rito catartico evoca i peggiori scenari ad ogni istante della partita.
C’è quello che tiene alto sempre il morale, incitando gli altri a tifare, nonostante tutto.
Ci sono il criticone, il rompiballe, il leader, lo scaramantico: insomma ogni tribù ha questi e altri personaggi che rendono il tifo un’esperienza divertente e, più importante, comprensibile a tutti gli altri tifosi.
Cose che rendono il calcio un’esperienza umana universale a quasi tutte le latitudini.
E a chi leggendo queste righe avrà provato un senso di superiorità per non essere tifoso, o una sorta di disgusto per vedere uomini che si comportano come primitivi, mi sento di dire che tutti loro hanno provato, o provano, esperienze simili in altri frangenti.
Le esperienze umane sono per natura tribali.
Ascoltare un certo tipo di musica, essere attivisti politici, vestirsi in un certo modo, essere appassionati di cinema o suonare uno strumento: sono tutte esperienze che, essendo condivise e replicabili, ci fanno appartenere ad un popolo più grande.
Un popolo al quale apparteniamo attraverso una tribù di contatti diretti. Un insegnante, un amico, dei compagni di partito: tutti, in un modo o nell’altro, appartenenti alla nostra tribù.
C’è chi vede in alcuni di questi popoli una dignità intrinseca più grande rispetto ad altri.
Come puoi paragonare chi fa attivismo politico a chi tifa una squadra di calcio?
Io penso che entrambe siano esperienze umane che formano l’individuo e che nessuna delle due abbia una dignità intrinsecamente più alta di un’altra. Tutto dipende da come viviamo le relazioni che sono alla base di quell’esperienza e da quanto lasciamo che quella tribù formi il nostro carattere.
Il rischio vero, qualunque sia il popolo o la tribù a cui apparteniamo, è quello di perdere in esso la nostra individualità.
Di lasciare che l’essere laziali, romanisti, attivisti, comunisti, liberali, fascisti o suonatori d’organo, sia tutto ciò che siamo.
Invece di fare in modo che l’essere tutto questo sia solo un piccolo tassello di un grande puzzle che ogni giorno, pezzo dopo pezzo, costruisce chi siamo.
La partita
Detto questo vi saluto e me ne vado a Ponte Milvio che alle 18:00 scende in campo la Lazio contro la Roma.
Appuntamento con il mio amico Toni per una birra pre-partita e poi sciarpata, cori, chiacchiere con i vicini di seggiolino, tifo, urla, qualche bestemmia e si spera la gioia della vittoria.
Ma se anche arrivasse la tristezza della sconfitta, so già che, come dice Paul in Febbre a 90°:
E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c'è sempre un'altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c'è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.
Ho vissuto cose simili a te a bordo di un altro tipo di campo - cosa che mi fa dire che forse l'universale stia nell'esperienza sportiva, che in quella calcistica (a cui va comunque riconosciuto di essere quella più facilmente condivisa, almeno da noi).