Farisei digitali
Il moralismo senza perdono dei social media.
Mi capita spesso, negli ultimi tempi, di pensare a come farò a spiegare a mia figlia la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Cosa vuol dire vivere bene? Come si fa ad agire bene, senza sentirsi migliori degli altri? Come si fa a essere “giusti”, senza trasformarsi in giustizieri?
Più ci penso, più i contorni di questi confini si sfumano e ogni occasione è buona per cercare un po’ di food for thought.
È notizia di pochi giorni fa il leak di una chat di gruppo tra Carlota Vagnoli, Valeria Fonte, Flavia Carlini, l’attivista palestinese Karem Rohana e Giuseppe Flavio Pagano: tutti “attivisti” digitali e “divulgatori” nell’orbita femminista e pro-pal, arruolati nel novero di chi è sempre in prima fila a sbandierare la giustezza delle proprie battaglie e (di riflesso) della propria posizione. Che siano battaglie per la parità di genere, per l’inclusività, per il popolo palestinese o per un’altra causa morale del momento, queste persone sono rumorose — loro direbbero presenti — nel farci sapere il loro schieramento, in quella che percepiscono come una battaglia tra il bene e il male.
Fin qui tutto legittimo. Non c’è niente di sbagliato nel lottare per ciò in cui si crede, anche sui social, né nell’usare toni forti: ognuno risponde solo alla propria coscienza. Il punto è un altro: se si vuole sostenere di essere moralmente dalla parte giusta, bisogna poi comportarsi di conseguenza. Se in pubblico predico rispetto e inclusività, non posso nel privato scrivere “lo mutiliamo, questo coglione” o definire altre donne “scendicazzi”. Non perché non si possano dire sciocchezze in un momento di rabbia — personalmente penso che esista una limitazione di responsabilità alle cose che scriviamo, anche in base al momento della vita e al contesto in cui scriviamo certe cose —, piuttosto perché poi non hai credibilità nell’attaccare chi, parimente sbagliando, si comporta in quello stesso modo.
Queste chat, piene di insulti e linguaggio violento, hanno mostrato la stessa tossicità cameratesca che i protagonisti denunciavano negli altri. Non è il gossip a interessarmi, ma ciò che rivela, e cioè che la nostra idea di “vita morale” si sia spostata dal comportamento all’immagine.
Queste persone — di cui parlo solo perché sono finite sotto le luci della ribalta in questo momento, ma non sono certo né le prime né le ultime — hanno basato la loro attività di influencer, divulgatori e creator sul fatto di essere una sorta di “voce della giustizia”.
Divulgare la parità, l’uguaglianza, l’umanità così tanto e così insistentemente da fare di quei concetti una parte integrante della propria identità. I detrattori di questo tipo di atteggiamento usano il termine social justice warrior: paladini della giustizia sociale così infervorati da avere spesso un atteggiamento escludente nei confronti di chi sbaglia. Accanirsi sul “nemico cattivo” — gli uomini, gli ebrei, i sionisti, i fascisti… la platea è ampia — brandendo le proprie “buone opinioni” con la clava, nella speranza che ferire il colpevole ci garantisca lo status di “brave persone”.
Christian Raimo, per fare un esempio, sosteneva che picchiare persone che si definiscono neonazisti sia giusto. Un insegnante (ogni volta che ci penso mi vengono i brividi) . Ma, senza per forza fare esempi violenti, anche solo rifiutare il confronto con chi è colpevole di avere idee diverse dalle nostre — come, per esempio, ha fatto Saverio Tommasi di recente con Daniele Capezzone, o Karem from Haifa con Francesco Giubilei — è oggi visto come un segno di vanto. Il fatto di “non aver legittimato” l’interlocutore avversario, non concedendogli l’occasione del confronto, è visto come un atto di resistenza che mantiene la purezza delle proprie idee.
Di come spesso queste persone citino Popper a sproposito ho già parlato qui, quindi non torno su quel punto, ma siamo sicuri che allontanare chi non la pensa come noi — anche, e soprattutto, se quel pensiero è aberrante — sia la scelta giusta? O che sia quella più morale?
Secondo me non lo è, per due motivi.
Il primo è che la morale oggi non è più un affare privato. Quando le religioni erano più popolari di oggi, per lo meno nel mondo occidentale, la conoscenza di ciò che era giusto e di ciò che era sbagliato era demandata alla propria fede. Certo, non che questo risolvesse i dilemmi morali, ma sicuramente offriva un linguaggio comune per costruire confini condivisi. Oggi quel meccanismo comune si è inceppato. Un po’ perché la società si è secolarizzata — il che è una buona cosa —, un po’ perché le religioni hanno perso attrattiva nel secolo delle grandi ideologie, sebbene in alcuni casi questo trend sembri arrestarsi o addirittura invertirsi. Inceppato questo meccanismo, le persone sono lasciate a sé stesse nel trovare la risposta alla domanda: “Cosa mi rende una persona morale?”.
E allora spesso la risposta diventa che a rendermi morale è ciò che mostra morale. Interessarmi a cause lontane, affrontare i grandi temi ed eventi del nostro tempo con la lente dell’umanità, partecipare a manifestazioni che denuncino un’ingiustizia: per parafrasare Nolan, “Non è tanto quello che fai, ma chi sembri che ti qualifica”. E allora essere una persona morale diventa un affare collettivo, non più privato e intimo, perché è necessario segnalare l’appartenenza a una causa ritenuta buona, meglio se popolare, per essere davvero morale.
La collettivizzazione dell’esperienza morale, spesso giustificata da presunti meccanismi imitativi — se mostri online che fai del bene, allora chi ti vede online sarà incentivato a fare altrettanto — ha spostato però l’attenzione dell’agire morale dall’azione alla comunicazione.
E nella comunicazione, si sa, non c’è spazio per le zone grigie. Non c’è spazio per la complessità. Il messaggio — o la storia, se preferite — deve essere chiaro, unico, potente e senza ambiguità. Perché altrimenti lo spettatore non capisce e cambia canale.
Cosa che mi porta al secondo punto: questa comunicazione forte della propria morale, che poi sfocia facilmente in moralismo, porta con sé un’altra conseguenza: la scomparsa del perdono.
Non esiste perdono nella comunicazione della morale: o si è con noi o si è contro di noi. Non c’è alcuna accettazione dei limiti intrinseci che ogni essere umano porta con sé, bisogna essere sempre con l’armatura scintillante, senza nulla fuori posto, sempre nel giusto e sempre pronti ad additare chi nel giusto non è, così che i propri discepoli possano riconoscere di appartenere alla cerchia giusta.
« Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » Luca 18,10-14
Quando vedo questi comportamenti, di cui lo scandalo Fascistelle a cui mi riferivo qui sopra è un esempio plastico, non riesco a fare a meno di pensare alla parabola del fariseo e del pubblicano.
Gli influencer della morale sono i farisei del nostro tempo: così impegnati a elevarsi sopra gli altri, a dare regole su cosa voglia dire essere persone morali e ad essere così fieri mentre si battono il petto dal piedistallo di like che si sono costruiti, da non rendersi conto nemmeno che quegli stessi comportamenti che condannano negli altri sono gli stessi che compiono nel privato.

E dalle “scuse” che questi personaggi hanno presentato nei giorni successivi all’emergere delle chat, si è visto come questo atteggiamento sia una sorta di autoinganno, perché sono loro stessi i primi a non rendersi conto di ciò che scrivono.
Persone che per anni hanno parlato di “chat del calcetto dove l’uomo esprime tutta la sua mascolinità tossica”, e i cui commenti più beceri poi abbracciano appieno quel luogo comune tanto condannato nell’altro.
Questa forma di negazione della realtà e di auto illusione, secondo me, è figlia della scomparsa della banale, quanto essenziale, accettazione che siamo tutti esseri umani. E, in quanto tali, capiterà sempre di sbagliare, di commettere errori, di dire o fare bestialità di cui poi ci pentiremo. E mirare alla perfezione di idee, parole e comportamenti è uno standard impossibile da sostenere e sarebbe dunque ipocrita cercarlo negli altri.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra” è un inno alla consapevolezza dei propri limiti: un modo semplice per ricordarci che nessuno è immune dal male, ma tutti possiamo scegliere consapevolmente di farne un po’ meno con le persone che ci circondano.
Con l’uscita di scena della religione, il moralismo dei farisei digitali non porta più peccatori da redimere, ma colpevoli da esporre, e io penso che questo non sia altro che il risultato di una mancata capacità di vivere serenamente le tante contraddizioni dell’uomo e la sua complessità.
Una complessità che ci spaventa e che ci porta a costruire una lente unica, semplice, affidabile e immutabile con cui guardare a tutti i problemi del mondo, nella speranza di trovare sempre un’interpretazione facile e rassicurante che ci aiuti a dividere il mondo in bianco e nero.
Ma, per quanto rassicurante questo pensiero possa essere, è destinato a fallire, perché il mondo non è una serie di eventi binari, ma un susseguirsi di nubi di probabilità, all’interno delle quali dovremmo orientarci più che con una mappa di certezze granitiche con una bussola di principi — ok, forse sto esagerando con le metafore.
Il punto è che penso che l’essere persone morali nasca da due cose: trasformare quei pensieri morali in azioni concrete, con una ricaduta reale sulle persone attorno a noi — per quanto piccola — e mettere continuamente alla prova ciò che pensiamo per evitare di identificare la nostra opinione con il nostro valore personale.
Oggi spesso confondiamo le idee con l’identità: sono femminista, sono filo-palestinese, sono pro-Ucraina, e questo, automaticamente, mi rende una persona morale.
Ma non funziona così.
Non siamo buoni perché abbiamo buone opinioni e forse dovremmo tornare a distinguere tra morale e moralismo: la morale riguarda il modo in cui scegli di comportarti, anche quando nessuno ti guarda; il moralismo, invece, riguarda il modo in cui scegli di mostrarti, soprattutto quando tutti ti guardano.
La morale non è una posa, ma un cammino fatto di sbandate, cadute, strade scoperte a sorpresa e, soprattutto, errori.
Il moralismo no: pretende la purezza e non accetta alcuna possibilità di redenzione.
Ecco, forse è questo quello che vorrei davvero insegnare a mia figlia un giorno: che il bene non è una posizione, ma un percorso pieno di dubbi e di errori; e che non dovrà cercare di “essere giusta”, quanto piuttosto cercare di “fare il giusto”, anche quando non conviene o non è chiaro dove stia di preciso.
E, soprattutto, a perdonare sé stessa e gli altri, quando inevitabilmente si allontaneranno da quel percorso.





Ciao Rick,
Molto d'accordo, tranne che su una cosa: secondo me le "Fascistelle" (e tutti gli altri simili farisei digitali) sono peggio di come li dipingi, perche' si rendono benissimo conto che quello che fanno e' esattamente cio' che condannano negli altri. Lo fanno lo stesso proprio perche' la loro facciata digitale e' solo una farsa, che continuano perche' ha successo. Io sono convinto che in una realta' alternativa ci sarebbe benissimo potuto essere un Karem from Tel Aviv che esalta l'IDF o una delle altre Naziskin o Tradwife. In poche parole, non ci credono veramente, e' solo virtue signalling. E fanno il segnale che porta piu' like, se pensassero fosse il saluto romano sarebbero li' a farlo.